Proposta di teatro-canzone dedicata al libro di Giobbe (edizioni CVS Roma 2013)
Prefazione di Josè Maria Castillo
Questa presentazione non intende affrontare le numerose questioni storiche, religiose, filosofiche e antropologiche che il libro di Giobbe propone. Vuole solo indicare alcuni problemi che, chiunque si avvicini alla miglior comprensione possibile di questa geniale opera, dovrà considerare.
Un libro, quello di Giobbe, tanto sconcertante quanto umano. Così profondamente umano da risultare, contemporaneamente, trascendente e divino.
In assoluto ritengo, quale migliore contributo scientifico alla ricerca per la profonda comprensione di questo strano libro, l’opera di H. P. Müller Das Hiobproblem: seine Stellung und Entstehung im Alten Wely Orient und im Alten Testament (Ertäge der Forschung, n. 87), Darmstad 1995.
Senza dubbio, l’importanza del libro di Giobbe è costituita dalla scelta di affrontare problemi profondi, propri di tutto il genere umano e che interessano non credenti e credenti, indipendentemente dalla religione professata.
La maggioranza dei ricercatori ritiene che il nucleo centrale del libro sia una leggenda originale in prosa, presumibilmente datata all’epoca monarchica d’Israele.
Per quanto riguarda la data di composizione e l’origine del libro biblico, i saccheggi dei Caldei nel nord dell’Arabia (menzionati in Giobbe 1, 14-17) fanno presupporre come luogo la regione di Temà durante l’occupazione da parte di Nabonido, tra gli anni 552-539 avanti Cristo, in occasione delle lotte per il controllo delle rotte commerciali dell’Arabia.
Siamo quindi di fronte ad un libro biblico con profonde influenze extrabibliche. L’autore viveva a Gerusalemme, nella seconda metà del V secolo avanti Cristo, nel periodo in cui si fomentava il dibattito che avrebbe dato origine ai libri della legge: la Torah.
Il problema centrale che propone il libro di Giobbe è quello della “teodicea”, che si potrebbe sintetizzare con una domanda tanto facile da formulare quanto difficile da risolvere: il Creatore può essere, nel contempo, onnipotente e giusto?
Partendo da questa inquietante domanda, l’autore chiarisce come gli amici di Giobbe, così religiosi e carichi di teologia, non hanno alcuna risposta alla domanda che porta Giobbe (l’uomo castigato dalla sofferenza e dalla disgrazia fino al punto di vedersi sommerso nell’estrema miseria di un “uomo spazzatura”), alle soglie della totale disperazione.
Questi personaggi, nei loro lunghi discorsi e con la loro recitazione di mantra tradizionali, non hanno nessuna considerazione della situazione personale di Giobbe. Fanno capire di essere completamente al margine della realtà. Ciò che alla fine rimane chiaro è che nessuno, non solo Satana, è completamente innocente di fronte alla sofferenza di questo mondo: neppure Dio (Ernst Axel Knauf e Philippe Guillaume).
Per chi in questo mondo si vede castigato, in modo serio e intenso, dalla sofferenza, la miglior cosa da fare è, probabilmente, quella di non chiedere spiegazioni a Dio, né di coinvolgerlo nel problema. Non è uno sproposito dire che gli amici di Giobbe, fino a dove riescono a capire, in un certo senso sono nel giusto. Si tratta di un Dio che è “un Dio sopra Dio” alla cui presenza le questioni del calcolo morale di Giobbe e dei suoi amici, sembrano indegne e triviali: è un Dio che nega a Giobbe la consolazione della “simmetria morale”, come ben disse Paul Tillich e come ci ha ricordato recentemente Walter Brueggemann.
In definitiva, se a Dio chiediamo spiegazioni, pretendendo inoltre che la sua onnipotenza quadri con le nostre sofferenze, finiamo inevitabilmente in una strana affermazione. Quella che un giorno, ormai lontano, si azzardò a fare uno dei più grandi mistici che troviamo nella storia del cristianesimo, il Maestro Eckhart: “Per questo chiedo a Dio che mi liberi da Dio, perché la mia essenza è al di sopra di Dio, se prendiamo Dio come inizio delle creature”.
Dov’è il cuore del problema? Dio, se veramente è pensato come Dio, non può essere capito se non come il Trascendente, vale a dire, come colui che trascende tutto ciò che noi umani possiamo raggiungere con la nostra limitata capacità di pensare.
Dio è Dio perché è al di là dell’orizzonte ultimo della nostra possibilità di pensiero e comprensione. Pertanto, tutto ciò che le religioni (Bibbia inclusa) ci hanno detto di Dio non si riferisce a ciò che “Dio è in sé”, bensì alle “rappresentazioni di Dio” che le religioni, nel corso dei secoli, si sono fatte. “Rappresentazioni di Dio” che si sono via via proposte secondo le diverse culture e i differenti momenti storici, nei quali ogni religione ci ha spiegato ciò che è Dio, come è Dio, quello che Dio ci dice, quello che Dio può e quello che Dio vuole.
L’essere umano, in quanto nasce, vive e muore nell’immanenza, non ha possibilità di accedere alla trascendenza che si situa in un altro ordine dell’essere, non a portata degli umani. Per questo il grande errore di tutti i teologi e di tutte le loro teologie (incluse le più “ortodosse” e le più “infallibili”) è di non essere altro che vani tentativi di costituire come Dio ciò che non è altro che una “oggettivazione o cosificazione di Dio”. È quanto le religioni hanno fatto, e continuano a fare, sulla base di un grande inganno e di una spaventosa falsità.
Da queste considerazioni consegue che coloro che affermano che Dio è come loro pensano che sia, che Dio vuole quello che a loro interessa che Dio voglia, che Dio è onnipotente, che Dio comanda o sopprime la sofferenza… quanti affermano tali convinzioni, oltre ad essere “bugiardi ingenui” (in alcuni casi) o “bugiardi mascalzoni” (in altri), portano con loro il virus di un pericolo minaccioso, dalle terribili conseguenze: la violenza del sacro, la più grande delle violenze.
È questa violenza del sacro che legittimò i crimini della Inquisizione e legittima ancora oggi le atrocità delle guerre religiose, i fanatici del divino che si uccidono uccidendo, con la terrificante sicurezza di morire come martiri esemplari.
In fondo, la radice del problema sta nel fatto che il Dio, del quale parliamo con totale naturalità (come di qualsiasi altra “cosa” familiare o conosciuta), è sempre un “Dio proiettivo”. È il risultato della “proiezione” dei nostri aneliti più profondi: tutto quello che non abbiamo alla nostra portata (il sapere che ignoriamo, il potere che desideriamo, l’“eternità” che vorremmo raggiungere); tutto ciò lo proiettiamo su un Essere Supremo, del quale non possiamo sapere nulla e al quale attribuiamo tutto quello che non possediamo e che vorremmo avere.
Non stava sbagliando Feuerbach quando intuì tutte queste cose. Il suo errore fu nel fatto che anche lui – forse senza rendersi conto di ciò che faceva – cadde nell’errore che intendeva condannare, mettendosi a parlare, con falsa sicurezza dogmatica, della “non-esistenza” di Dio.
Cerchiamo di essere coerenti: né per desiderio di ortodossia né per pretese di eterodossia, possiamo parlare con presunta sicurezza di Dio; né della sua esistenza, né della sua non-esistenza. Tutto ciò vuol forse dire che, nell’affrontare il problema di Dio, ci stiamo addentrando in una strada senza via d’uscita? Può esistere un punto di partenza, per trattare la questione con onestà?
Innanzitutto sia chiaro che abbiamo il diritto e il dovere di pensare a fondo la questione di Dio e di confrontarci sul problema di Dio. Per questo affermiamo che il libro di Giobbe è uno dei tentativi più onorevoli e audaci prodotti nella storia delle tradizioni religiose dell’umanità. Dobbiamo pensare a Dio, dobbiamo parlare di Dio per lo stesso motivo per il quale l’autore del libro di Giobbe raccolse i contenuti di cui disponeva, e – utilizzando metafore audaci e azzardate – ci narrò i suoi dubbi e la sua ricerca di una soluzione. Il problema è quello che tutti noi umani portiamo nel sangue, anche quando non ne siamo coscienti: il problema più grande in cui ci dibattiamo è proprio quello di Dio.
In conclusione, nel parlare del problema di Dio stiamo parlando del “senso della vita”. Tutti cerchiamo un senso al non-senso di questa vita, piena di tante e tanto forti contraddizioni, frustrazioni e sofferenze. Questa nostra interiorità, questa forza solitaria ed ultima, questa, essenzialmente, è la nostra ricerca di Dio, ed è il problema a cui ci mette di fronte il libro di Giobbe.
Ma qui è dove si presenta la domanda più forte e piena di speranza: com’è possibile, dalla nostra immanenza, gestire l’incontro con Colui che si pone nel dominio della trascendenza? Il Buddismo e il Cristianesimo, sono state le due religioni che hanno preso sul serio questa domanda. Il Buddismo optò per un riferimento stabile al Budda, fissando il giorno in cui a Gautama si aprirono gli occhi al Dharma e si trasformò, appunto, in Budda, l’“Illuminato”.
Il Cristianesimo trovò la soluzione nell’accadimento della incarnazione di Dio in Gesù. Il Dio, che nessuno ha mai visto (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12), si fece carne (Gv 1, 14), vale a dire che l’incarnazione di Dio in Gesù è l’umanizzazione di Dio. Così Dio entrò nella storia dell’uomo.
E da allora, il Dio che “svuotò se stesso” (Fil 2,7), il Dio Kenotico, ridotto alla condizione di schiavo, ossia al “minimo umano”, è il Dio che ha lasciato palese per sempre la straordinaria proposta che il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore troveranno in questo geniale lavoro di Claudio Bassi e Luciano Ruga.
Quando Gesù di Nazaret disse ad uno dei suoi apostoli: “Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), il problema del libro di Giobbe stava trovando la sua soluzione più inaspettata. Esattamente, la soluzione che gli autori qui ci propongono: “Il dolore fa male …l’amore invece no”.
Quando Gesù parlò a Filippo, con quella sconcertante affermazione, era la notte in cui iniziava la sua passione e cominciava il cammino verso il fallimento e la morte. Gesù arrivò più in là e più a fondo di Giobbe. Quella notte, la notte del più grande dolore e delle mille umiliazioni, rappresenta il momento in cui lo stesso Gesù mette in evidenza come il dolore ci distrugge mentre l’amore, la bontà, il rispetto e l’infinita tenerezza, non fanno mai male. Come non ha mai fatto male l’incomprensibile umanità di Gesù, il Cristo.
Questo infatti è quello che il Dio di Gesù ci lasciò detto: esattamente dove incontriamo quanto è più profondamente umano, lì (e mai fuori di lì) è dove troviamo il più eccelsamente divino, quello che Dio è, quello che Dio può e quello che Dio vuole.
Bassi e Ruga hanno tutta la ragione di questo mondo e dell’altro, quando, in questo libro prezioso, mettono sulla bocca del “cuore” questa magistrale massima:
Dio senza potere? Mai sia!
Il malvagio prospera? Perirà!
Il giusto soffre? Si penta e guarirà!
Se non prima, certo nel poi dell’eternità…
Non farti ingannare, ferito dal dolore.
Prospera il giusto e anche il malvagio.
Dio Onnipotente non ha mani per punire.
Ha le tue mani per amare, per donare vita e
ricercare gioia.
Ha le tue mani, giuste e benevole.
Non ha le tue mani malvagie, né le tue arroganti,
né le tue avvezze a mascherare il potere con l’ipocrisia…
Dio, in Gesù, lo lasciò detto: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Perché, come si è ben detto molte volte, “solo l’amore è degno di fede”.
(Traduzione dallo spagnolo a cura di Carlos Palatio Blanco e Michela Bassi)