Introduzione
Consegnando la bolla d’indizione del Giubileo ordinario 2025 Spes non confundit, Papa Francesco ha inteso manifestare l’unità profonda tra l’annuncio della Speranza e i segni tangibili che la rendono concreta.
È importante, infatti, evitare il rischio di soffermarsi solo all’annuncio, rimanendo in un orizzonte teorico, senza sperimentare l’esigenza di un coinvolgimento personale diretto.
In tal senso è certamente opportuno spingere il proprio interesse oltre ai segni concreti ricordati nel documento pontificio, quali la pace, la vita, l’empatia, la solidarietà, la salvaguardia dell’ambiente…
Tutti i patrimoni culturali, nell’universalità dei popoli, possono offrire segni eloquenti di Speranza, arricchendo la visione cristiana di questa virtù teologale. La nostra esperienza di popolo peregrinante, nel corso dell’Anno Giubilare, ne risulterà certamente fortificata.
Particolarmente feconda, in tal senso, è la considerazione della speranza e dei suoi segni tangibili nel contesto della cultura africana. Le considerazioni al riguardo vanno necessariamente circoscritte, avuto conto della complessa diversità delle culture presenti nel continente africano. Porremo dunque attenzione soltanto ad alcuni elementi comuni nelle aree subsahariane.
Cos’è la speranza?
La parola speranza dal latino spes, dalla radice sanscrita spa significa “tendere verso una meta”. Nel pensiero occidentale esprime l’attesa del compimento di un desiderio o di una promessa o di un avvenimento, che si rapporta comunque al bene.
Nella religione cristiana, riguarda la fiducia nella incrollabile fedeltà di Dio nel compiere le sue promesse. Essa ha a che fare con la vita eterna, cioè con l’avvento definitivo del Regno dei Cieli, promesso da Cristo.
Nel linguaggio teologico, la speranza assume la caratteristica di un habitus, cioè di una retta disposizione dell’anima. Una virtù che Dio stesso infonde nella persona e la abilita a desiderare sempre un bene superiore, non ancora presente, non facile da conseguire, arduo e tuttavia possibile.
Nel pensiero e nella spiritualità africana, il concetto della speranza è vicino al significato espresso dai teologi cristiani. La speranza, nel contesto culturale subsahariano, si rapporta ad una virtù, cioè ad una energia che è inerente all’uomo e lo fa vivere. Il significato è intimamente legato ai processi fisiologici della persona umana. Per questo lo storico gesuita camerunense Engelbert Mveng nota che essa è inseparabile dall’uomo e dal suo destino. Come a dire che la speranza è parte costitutiva dell’essere africano, della sua realtà antropologica. L’uomo africano è quindi un essere essenzialmente votato alla speranza. Non può non sperare.
La speranza africana ha come fonte e oggetto Dio e la comunità, intesa in una triplice dimensione: i viventi, i morti e i non ancora nati.
Va esplicitiamo che ogni volta che si parla della comunità, o della tribù o del clan, nel contesto africano, si fa sempre riferimento a questa triplice e inseparabile dimensione. Per questo, la speranza ha una dimensione nel contempo immanente e trascendente. Immanente nel senso che, come forza, spinge l’africano a confidare non in sé e nelle proprie forze ma nella comunità e in quella comunione che solo essa può creare.
La dimensione trascendente, invece, rinvia alla certezza incrollabile che i viventi hanno nell’aiuto e nell’intervento di Dio e degli antenati. Una intensa proiezione in avanti, volta a gestire l’avvenire, a perpetuare la famiglia, a mantenere l’equilibrio cosmico portando a termine il corso delle cose.
Segni di Speranza
1. La forza vitale
Primo segno della speranza africana è la vita stessa. L’amore per la vita è la caratteristica fondamentale degli africani. Lo aveva sottolineato anche Papa Giovanni Paolo II nell’apertura del Sinodo dei vescovi africani del 1994: «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita».
Se nel contesto occidentale, la speranza esprime un desiderio o una attesa di qualcosa o di un avvenimento utile, buono o che paia tale, nelle culture africane tale proiezione al futuro si sostanzia nel presente di una “forza vitale”, un’energia radicata biologicamente, propria di ogni africano.
La forza vitale è un leitmotiv presente nel linguaggio e nel pensiero degli africani. Essa esprime la voglia di vivere e di trasmettere la vita. In quanto principio trasversale nelle culture africane, essa è onnipresente nelle azioni, nei simboli e nei gesti di tutti gli africani.
La forza vitale determina, in certo qual modo, la volontà intima degli africani di vivere senza fine. È come il motore delle loro azioni. Vanno comprese il tal senso, come concretizzazioni della perpetua spinta vitale, alcune usanze africane. I canti, le danze, i rituali (festivi o funebri), le invocazioni, le divinazioni, le cure medicinali… Si tratta di espressioni spesso giudicate superficialmente come atti magici e insensati. Si tratta in realtà di gesti estremamente significativi. Oltre a storicizzare il desiderio di accogliere e generare la vita (di proteggerla, di garantire la sua continuità nel tempo), realizzano azioni efficaci nel contrastare tutto ciò che diminuisce o mette in pericolo l’esistenza personale e comunitaria.
2. La resilienza
Ulteriore segno della speranza africana è la resilienza del popolo davanti alle avversità. La storia è testimone di terribili sofferenze inflitte al popolo africano lungo i secoli. Oltre ai conflitti interni, l’Africa ha subito per secoli la violenza derivata dal colonialismo e dalle pratiche della schiavitù (condizioni che peraltro permangono sotto altre forme di sfruttamento economico).
In riferimento a questa tragedia, nel contesto occidentale si è sviluppata, dopo gli anni sessanta, una letteratura pessimistica riguardo all’avvenire del Continente. Si è parlato dell’Africa in termini di “maledizioni”, “guerre”, “povertà e miseria”, riferendosi ad un “continente senza speranza”. Agli africani è stato negato ogni sogno di un futuro promettente. Autori come René Dumont, agronomo francese, e David Rieff, analista politico statunitense, non hanno esitato a pubblicare libri con titoli provocatori: “L’Afrique noire est mal partie”; “In Défense of Afro-Pessimism”.
In reazione a tale tendenza, il teologo Igino Tubaldo, Missionario della Consolata, ha inteso rivendicare, nei suoi scritti, rispetto e considerazione, reagendo alla sofferenza penalizzante inflitta dall’Occidente ai popoli africani. In effetti, nessun popolo della terra ha tanto sofferto e per così tanto tempo quanto il popolo africano. Tuttavia, sebbene immersa nella tragedia, l’Africa non ha mai perso la speranza, la fiducia in un futuro sempre migliore.
Caratteristica fondamentale di questa speranza è la resilienza del popolo. Una resilienza che si dispiega nella resistenza e nella solidarietà del popolo, sostenuto da una fiducia incrollabile nell’intervento degli antenati che permetterà di sopraffare il pericolo.
Il filosofo angolano Agostinho Neto, nel suo poema politico Sagrada Esperança, loda questa forza resiliente che ha sorretto il popolo angolano durante circa cinque secoli di dominio coloniale portoghese. Il nucleo centrale del poema è rappresentato, infatti, dal termine kolokota, che significa «forza», resilienza, resistenza. L’imperativo di questa parola traduce l’ostinato impegno: l’«insistere», o il «persistere con energia vitale».
3. La gioia
Un terzo segno della speranza africana è la gioia di vivere. Se la speranza cristiana allude ad una gioia senza fine nel Regno dei Cieli, per l’africano questa gioia si vive già nell’oggi, nel tempo presente dell’esistenza, in un contesto comunitario.
La felicità è lo stile di vita degli africani. Ha come sorgente la comunità e come caratteristica la semplicità. La gioia dell’africano attinge dal carattere sapienziale della sua cultura. La felicità non sta nell’accumulo di cose materiali ma nell’avere una famiglia e nell’essere inseriti nelle reti relazionali. In altri termini, non è tanto il possesso delle cose materiali che da senso alla vita e procura gioia, quanto piuttosto il sentirsi circondati dai propri cari nel condividere il poco che si ha. Essere felice in Africa significa avere persone amiche con cui condividere i propri sentimenti.
In una prospettiva consumista, la felicità viene spesso associata al possesso di beni e alla loro fruizione intesa come consumo a proprio beneficio. Casa, auto, gioielli, denaro, ma anche buona salute, relazioni, famiglia, libertà incondizionata. L’esperienza gioiosa, in Africa, non è vincolata a beni materiali. Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, girando tra le baraccopoli keniote, notava come i bambini giocassero felici senza disporre di nulla e considerava come, effettivamente, la vita fosse più forte della morte.
La felicità africana non si manifesta solo attraverso il sorriso, ma si espande anche nelle celebrazioni: tamburi, canti e balli si fondono in un ritmo coinvolgente, fisico e spirituale. Gli elementi celebrativi della musica, del canto e della danza, rivestono un ruolo chiave nella comprensione dello spirito che anima la cultura africana. Attraverso di essi avviene la condivisione di valori e soprattutto la comunicazione tra i viventi e gli antenati. Il singolo e la comunità si connettono con l’universo spirituale degli elementi.
La loro esecuzione è carica di emozioni, espresse e comprese dalla comunità attraverso il ritmo che vi corrisponde. Il p. Igino Tubaldo annota: “per gli africani, la danza è tutto: meditazione vitale, comunione universale con il cosmo, con la madre terra, armonia tra corpo e spirito, tra le persone e la comunità, incontro con l’altro, liberazione, contatto con l’aldilà, conclusione di qualsiasi solidarietà” (Filosofia in bianco e nero, Torino 1995).
Anche di fronte alle vicissitudini della vita, l’africano non smarrisce il ritmo della festa e della danza. Secondo le considerazioni espresse da Angèle Rachele Bilégué (La speranza nella cultura africana, Roma 2016) sono molte le famiglie e i bambini africani che vivono ogni giorno nell’incertezza totale del domani. Tanti trascorrono i loro giorni accompagnati dalla fame, senza la possibilità di avere un alloggio decente, Continuano, tuttavia, a danzare, accompagnati dai canti, dal ritmo dei tamburi e dal battito delle mani. Poiché per l’africano, la vita ha un afflato festoso. Egli ringrazia Dio e gli antenati per il poco che ha e trova sempre dei motivi per celebrare con allegria ogni istante che trascorre, come fosse comunque un dono.
Igino Tubaldo, a proposito degli schiavi africani, strappati alle loro terre e trasportati nelle piantagioni degli Stati Uniti, racconta come durante la liturgia domenicale, nel giorno libero dal lavoro, essi fossero soliti cantare, danzare e suonare i tamburi. Esclamavano infatti: “I bianchi hanno il libro. Noi lo spirito: uno spirito effervescente che lascia dei segni”. Un linguaggio simbolico e profondo; i loro padroni non vi potevano accedere (Filosofia in bianco e nero, Torino 1995).
Le celebrazioni eucaristiche dei cristiani africani – prosegue la summenzionata filosofa camerunense – continuano tuttora a essere molto animate e cariche di dinamismo: sono una festa che si prolunga all’infinito, senza che nessuno guardi l’orologio. Non si corre, nessuno si preoccupa del tempo che passa, ma tutto è con il Signore. Le comunità cristiane presenti in Africa, soprattutto quelle più povere, preparano sempre qualcosa per tutti e al termine della celebrazione offrono spesso momenti di fraternità, animati da canti e danze. La celebrazione eucaristica è la festa dei fedeli attorno al loro Signore, è un momento di incontro, di convivio e di condivisione dei beni spirituali e materiali. Non c’è incontro né celebrazione senza festa, e non c’è festa che non comporti la condivisione del cibo.
Ciò che importa non è la qualità e la quantità del cibo, ma l’intensità della relazione che si occasiona: l’incontro, la comunione e la condivisione.
4. La vita comunitaria
Quarto segno della speranza africana è la vita comunitaria. La cultura africana è basata sull’unione intima e vitale con la famiglia, la tribù e Dio. La comunità è il fondamento e la meta della vita. Nulla può avere buon esito se intrapreso individualmente, all’infuori di essa. È la comunità a determinare l’agire dei suoi membri. Provvede alla loro necessità. Non esiste una realizzazione personale all’infuori di essa. In effetti per i popoli africani la visione sociale dell’essere umano è prioritaria, il gruppo ha il primato sull’individuo. L’ethos comunitario si basa sullo spirito di cooperazione, piuttosto che sulla competizione.
Sull’accumulo e sull’avidità individualistica, prevalgono la condivisione e la redistribuzione. È quanto ricorda il noto concetto chiave della filosofia africana: ubuntu.
Ubuntu è una parola in lingua bantu dai profondi significati. Indica “benevolenza verso il prossimo”, “armonia con gli altri”. Per coglierne appieno il senso, ci si rifà al proverbio Zulu “umuntu ngumuntu ngabantu”, il quale, secondo la più accreditata interpretazione, sta a significare: “io sono perché noi siamo”; oppure: “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. È una regola di vita, basata sulla compassione e il rispetto dell’altro.
L’ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace. Non a caso l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco riporta un concetto molto simile: “Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona» (FT, 182).
L’ubuntu qualifica non solo i rapporti interpersonali, ma si riferisce anche al rapporto della persona con il cosmo e con tutto l’universo spirituale. Nella cosmologia africana, secondo gli studi filosofici di Angèle R. Bilégué, l’universo è considerato come un’immensa unità vitale in cui esistono vari gradi di relazione: gli spiriti, gli animali, le piante. Anche gli esseri inanimati e i fenomeni naturali, sono pervasi dalla vita e sono intimamente legati tra loro da una forza che li mantiene in intima relazione di solidarietà, interdipendenza ed armonia universale.
Ogni livello dell’esistenza dipende da sé stesso ed obbedisce alle proprie leggi, ma al tempo stesso è in relazione con gli altri. Questa interconnessione garantisce così una situazione di equilibrio, che necessita di essere preservata. Il verificarsi di una rottura in qualsiasi punto della catena causerebbe la distruzione dell’intero sistema. La qualità della vita, la pace, il benessere, la salute, la prosperità, la felicità e la sicurezza delle persone e della società dipendono dal mantenimento di questa armonia cosmica. Dentro questo sistema, l’essere umano occupa il centro: egli stabilisce l’equilibrio tra le forze, instaurando una relazione speciale con ogni ambito dell’esistenza, che è considerato e valutato in funzione della relazione con lui.
Tutta la creazione è profondamente unita ed armonizzata attraverso la partecipazione vitale e l’interscambio di uomini e donne tra loro e con Dio, mediante l’intermediazione degli antenati. Per l’africano la relazione verticale (con Dio e con gli spiriti) e orizzontale (con le persone e con il mondo) coinvolge sempre la totalità della persona umana: corpo, mente, spirito ed emozioni. Il confine tra lo spirituale e il materiale, tra il religioso e il secolare è tanto sottile che difficilmente lo si potrebbe distinguere.
Conclusione
Sperare è una delle esperienze temporali più comuni per l’umanità. Ogni popolo ha una speranza in qualche modo connessa con il “divino”. L’Africa subsahariana ha la sua prospettiva di speranza incorporata nei propri costumi, che trasmette attraverso segni culturali e spirituali.
Papa Benedetto XVI, durante una visita apostolica in Benin, ha definito l’Africa come “Terra di speranza” e “polmone spirituale dell’umanità”, proprio in considerazione di questi elementi spirituali e culturali.
Una dichiarazione che ha destato notevole interesse nel panorama culturale dell’occidente. Lo scrittore e giornalista italiano Federico Rampini (La speranza africana, Mondadori 2023), esamina i segnali di speranza in Africa e invita a cambiare sguardo e considerazioni su questo continente. Piuttosto che focalizzarsi solo sulle sofferenze e la desolazione, è necessario riconoscere che il destino dell’umanità sarà determinato da questo continente, “molto più gioioso” rispetto a quanto solitamente mostrato dai media occidentali.
Joseph Hoina