L’amore non è amaro. Siamo certi che, quando è autentico, sia la sorgente di una dolcezza infinita. Esito dell’amore, infatti, per il credente, è la salvezza, quanto di più dolce si possa sperimentare. L’amore è tuttavia vissuto concretamente e la nostra umanità, povera e limitata, non è certo carente di amarezze.

L’antico popolo di Israele compì il proprio esodo, di liberazione e salvezza, attraversando un deserto segnato da aspre difficoltà. In quel contesto, ciascuno era sospinto verso gli altri da situazioni vitali, da fame e sete. Era in questione l’esistenza stessa, la concreta possibilità di sussistere. Andare verso l’altro significava salvare la propria vita.

Nella nostra esistenza è più facile gestire la dipendenza dagli altri e vivere una certa autosufficienza. Nelle nostre relazioni è presente la tragica possibilità di ritornare continuamente su noi stessi, considerandoci il termine ultimo, l’approdo definitivo. Rischiamo persino di considerare gratificante e rassicurante il verificarsi di questo ritorno su noi stessi. Sappiamo che cristianamente è una scelta assurda. Siamo discepoli del Figlio di Dio, che ha dato se stesso per tutti. Una totalità nel dono di sé per una totalità di persone.

La nostra personale esperienza ci conferma di quanto possa risultare triste e sterile l’esito di un egocentrico ritorno su se stessi. Come un abbraccio che non stringesse altro corpo che il proprio. Con esempi eloquenti lo psicoterapeuta austriaco Viktor Frankl (iniziatore della logoterapia) esortava a comprendere il significato della propria esistenza nell’autentico rivolgersi agli altri. L’occhio sano non vede se stesso, il boomerang lanciato dal cacciatore torna indietro quando ha fallito il bersaglio, chi guarda il proprio riflesso allo specchio non coglie nulla che si aggiunga e renda migliori.

Uscire da se stessi, rinnegare il proprio egoismo, ha sempre un sapore amaro. C’è qualcosa che muore, nuove ferite, attese vanificate, rinunce. Ma non è questo il retrogusto che permane sul palato. Il sapore autentico è dolcissimo e permanente. Garantito da quella particolare percezione della realtà presente che chiamiamo speranza.

La speranza celebra l’esodo dal nostro egoismo, traccia, nel tempo presente, un cammino che ci guarisce e ci salva. Distolti dall’eterno ritorno a noi stessi, sperare restituisce al nostro agire l’unico esito naturale: gli altri. Non dobbiamo ritrovare noi stessi all’interno di un cerchio, ma nel sentiero che ci conduce in avanti, nel dono che rimane tra le mani altrui.

Luciano Ruga