Si nasce e si muore. Sono gli estremi inevitabili della nostra umana esistenza. Entrambi i momenti segnano un passaggio necessario. Il neonato passa dal grembo materno al grembo del mondo, diverso e molto più complicato. È necessario che il piccolo bimbo affronti questo momento per continuare a vivere, per conoscere l’amore, la gioia, il sapore autentico della vita complessa e bellissima, la sofferenza, il bene e il male.
Colui che muore, passa dal grembo del mondo al grembo di Dio, infinitamente semplice. È nuovamente necessario, anche in questo caso, affrontare un passaggio sofferto per continuare a vivere, per conoscere la pienezza dell’amore, nell’infinita gioia e bellezza di Dio.
Nel nostro tempo la morte è spesso negata e marginalizzata. Viene nascosta da un atteggiamento riduttivo, che conduce ad una tragica spersonalizzazione di colui che sta per morire. La persona diventa un “oggetto”, su cui riversare cure e premure. Anche il morente, invece, deve essere “soggetto attivo”, protagonista di un dono da consegnare agli altri.
Chi sta morendo va accompagnato, considerato come presenza attiva nel comune cammino, muovendosi insieme verso il momento culminante. La morte fa parte della vita ed è giusto poterla condividere con gli altri, così come avvenuto per il resto dell’esistenza. Ci si è impegnati a vivere il meglio possibile in molte situazioni e non ha senso che si rinunci a farlo proprio nel momento supremo, nella situazione ultima.
Nasciamo e moriamo, necessariamente. È importante allora riflettere su quale sia l’insegnamento di Gesù riguardo alla vita capace di superare la morte. Non si tratta solamente di credere nella risurrezione dell’ultimo giorno (come nella tradizione giudaica) o nell’immortalità dell’anima (comprensione già nota ai filosofi dell’antica Grecia). La parola del Vangelo invita a considerare prospettive che possono rovesciare certe logiche. I potenti e gli arroganti, ad esempio, che si credono vivi, sono già morti. Al contrario, invece, quanti sono in condizione di sofferenza e morte, sono spesso gli unici davvero viventi.
La vita eterna non va intesa come una condizione dopo la morte, riservata a chi si è comportato bene. È piuttosto una qualità della vita presente, subito a disposizione di quanti accettano Gesù ed il suo messaggio. Coloro che attuano una tale qualità di vita sono i costruttori del regno di Dio. Lo possono fare sempre, fino all’ultimo respiro, fino a quando entreranno nel grembo di Dio.
Ecco il dono che può ancora fare colui che sta morendo. Può offrire l’ultimo prezioso insegnamento, perché chi assiste impari a vivere comprendendo il valore della morte. Non è stato forse l’amore a dare un senso profondo a tanti momenti dell’esistenza? Non è in nome dell’amore che si è sopportato, cercato, vinto, resistito, ricominciato? Sia dunque l’amore anche il significato espresso nell’ultimo passo, nell’ultimo dono.
Si muore per gli altri, per quelli che restano, testimoni della nostra esistenza nel suo momento più solenne e importante. Morire pensando agli altri, mostrando il significato del dono, impresso nella propria morte, per coloro che ancora vivranno nel grembo del mondo.
Luciano Ruga