Vi è un discorso di Paolo VI, particolarmente considerato dal Beato Luigi Novarese, nelle proprie riflessioni sull’esperienza dell’umano soffrire. Risale al 1964, al termine della tradizionale Via Crucis al Colosseo (27 marzo).

In quel Venerdì Santo, Paolo VI espresse due brevi riflessioni, prendendo spunto dalla suggestiva immagine della “Crux lux”. La Croce come faro che rischiara il mondo.

Il Pontefice guarda alla “scena del mondo”, illuminata dalla Croce, e vi osserva due aspetti: la sofferenza e la pace.

Nell’argomentazione sul primo aspetto, le parole del Papa giungono ad una sorta di culmine, con una frase impattante, poi ripresa e acclarata: “Cristo lancia una vocazione al dolore”.

La domanda che sorge, di primo acchito, riguarda ovviamente l’oggetto e il destinatario di tale “lancio”. Si tratta di una vocazione al dolore, nel senso che un soggetto sottinteso (la persona umana) sarebbe volutamente chiamato a soffrire?

Oppure si tratta di una vocazione (ancora non specificata) che viene rivolta “al dolore”, come destinatario, interpellato da Cristo?

Le parole del Pontefice acclarano il dubbio subito dopo: “Gesù chiama il dolore a uscire dalla sua disperata inutilità e a diventare, se unito al suo, fonte positiva di bene, fonte non solo delle più sublimi virtù – che vanno dalla pazienza all’eroismo e alla sapienza -, ma altresì alla capacità espiatrice, redentrice, beatificante propria della Croce di Cristo”.

Nessuna persona soffre per “vocazione”. L’esperienza del dolore è “chiamata” ad attivarsi per il bene.

A questo passaggio centrale, il discorso premette una considerazione sulla particolare connessione tra quanti soffrono (per ogni tipo di miseria, ogni povertà, ogni infermità, ogni debolezza, cioè condizione della vita che sia deficiente e bisognosa di rimedio) e il Cristo paziente.

Alla luce della Croce, quanto appariva “pura disgrazia, pura inferiorità, più degna di disprezzo e di ripugnanza che meritevole di comprensione, di compassione, di amore”, diventa oggetto di rispetto, di cura e di culto. Fin qui, si tratta della dignità del dolore umano.

V’è di più, afferma Paolo VI, ed è una voce “fra le più misteriose e le più benefiche che abbiano attraversato il quadro della vita umana.” È questa la Voce che “lancia una vocazione”, “chiama il dolore” ad uscire dall’inutilità.

Il “di più” a cui conduce tale Voce, viene significativamente indicato come “compassione attiva”.

In comunione con Cristo, la persona sofferente scopre non solo la dignità della propria situazione, ma anche una possibile missione: rendere migliore la propria e altrui esistenza.

Dalla luminosa Croce di Cristo, deriva una capacità umana che va in crescendo: espiatrice, redentrice, beatificante. Non solo per rapporto alla salvezza eterna, dopo la morte, ma salvifica e beatifica per il tempo presente, nella carne mortale. “La «compassione» da passiva si fa attiva; idealizza e santifica il dolore umano, lo rende complementare a quello del Redentore (cfr. Col. 1, 24)”. Rispondere a questa “vocazione” significa, per la persona sofferente, prendersi cura attivamente dell’altro. Saper accogliere anche l’altrui fragilità, accompagnarla e “sanarla”, intessendo relazioni significative e buone. “Ricordi ognuno di noi questa ineffabile possibilità. Le nostre sofferenze (sempre degne di cure e di rimedi) diventano buone, diventano preziose. Nel cristiano si inizia un’arte strana e stupenda: quella di «saper soffrire», quella di far servire il proprio dolore alla propria ed alla altrui redenzione”.

“Saper soffrire” significa “saper amare”, risorgere quotidianamente nel dono di sé, amando la vita sempre, facendosi carico della vita degli altri, che è sempre bisognosa di rimedio.

Luciano Ruga

 

Nella foto, Monte degli Ulivi (Gerusalemme). Campanile del monastero russo ortodosso. Memoria dell’Ascensione del Signore.