Il popolo di Israele è vissuto in schiavitù, nella terra di Egitto. È stato un tempo sofferto, di dolore e di oppressione. Il libro biblico dell’Esodo racconta il dramma di questa prigionia e l’avventura intensa della liberazione.

Insieme al cammino vitale per la libertà, dove entrano in gioco la fame, la distruzione, la morte, troviamo nel testo biblico anche le prescrizioni della legge, le osservanze da custodire nei riti.

Pare un po’ strano che nel medesimo racconto in cui si parla di ciò che è davvero essenziale, come la lotta per la vita e la libertà, ci si attardi ad annotare indicazioni obbligatorie su come cucinare un agnello.

Talvolta le prescrizioni possono diventare così assolute da soffocare la realtà, di cui invece dovrebbero essere a servizio. È una tentazione facile quella di privilegiare le osservanze. È un modo per stringere tra le mani uno strumento di potere. Presentarsi a Dio come un avente diritto e davanti agli altri come un giusto, potente e rispettabile, devoto.

Il potere religioso del culto, come hanno ben inteso i sacerdoti di tutti i tempi, è un ottima opportunità per celebrare se stessi e garantire i propri interessi e privilegi.

Noi cristiani, al contrario, non dobbiamo celebrare noi stessi e i nostri poteri religiosi verso Dio e gli altri. Dobbiamo celebrare l’amore di Dio. Il cristiano fa esperienza di un Dio diverso. Il cristiano prega e celebra mescolando la propria vita con quella di Dio, rigenerando così la capacità di amare, di servire, di promuovere l’esistenza propria e altrui. Se il rito, con le sue formule, le sue osservanze, diviene più importante della vita stessa, non nasce nulla di buono. È come se l’esistenza venisse messa dentro una bella scatola e poi vi fosse rinchiusa, rimanendovi inerte.

La tradizione giudaica collezionò nel tempo moltissime norme e prescrizioni. Quando Gesù ebbe a manifestarsi come “signore del sabato” (Mt 12,8), pose fine ad una schiavitù non meno tenace di quella imposta dal Faraone, re di Egitto.

Iniziò la sua attività liberando e guarendo le persone. Ancora schiavo, il popolo si trovava sottomesso all’istituzione religiosa. Presentando Gesù nell’atto di compiere la sua missione, l’evangelista Matteo (4,23) evidenzia una certa presa di distanza dal potere religioso ufficiale. Gesù non frequenta le sinagoghe per partecipare al culto, ma per insegnare.

La sua parola intende liberare le persone dalle false immagini di Dio, inculcate dall’insegnamento tradizionale. Tra queste anche la convinzione che tra il peccato e la malattia vi fosse un rapporto di causa ed effetto. Con il Vangelo giunge nel mondo la buona notizia del Regno, dell’attività “regale” di Dio nei confronti dei suoi, che verrà formulata da Matteo nel discorso sul monte (Mt 5) ed espressa nelle azioni compiute dal Cristo.

La regalità del Signore non consiste nel dominare i suoi, ma nel servirli (Mt 20,28). “Il Dio di Gesù è un Dio-Amore (1Gv 4,8) – considera il biblista Alberto Maggi – e l’amore non può esprimersi attraverso delle leggi, ma solo attraverso comunicazioni vitali. Nessuna legge, infatti, per quanto divina, potrà mai formulare l’amore di Dio, mentre ogni gesto d’amore, anche il più umano, è un riflesso dell’amore divino”. (Fede e religione, salute e malattia nella spiritualità, dal sito “Centro studi biblici G. Vannucci, maggio 2010).

L’esodo biblico è un cammino di libertà, la scoperta continua di ciò che essenziale e vitale. È un passaggio, con una direzione ben precisa ed esige che qualcosa venga lasciato e qualcos’altro raggiunto. Non può essere diversamente per nessuna esperienza umana.

Luciano Ruga

 

Fotografia: Deserto di Giuda. Complesso architettonico di Nabi Mousa.