Radunarsi. Lo facciamo spesso, con motivazioni molto diverse. Spesso, se abituale e generalizzata, non consideriamo nemmeno quale ne sia la circostanza. Ci si raduna per prendere un autobus, ci si riunisce a scuola o al lavoro. Vi sono poi luoghi di incontro in cui lo scopo è percepito come particolare. In genere sono occasioni meno abituali e ci possono essere anche dei costi, come quando ci si raduna per assistere ad un evento artistico o sportivo.

Ci raduniamo anche in chiesa. I motivi possono essere i più vari. Vi sono regioni del mondo dove la chiesa, quando c’è, è un locale polivalente. I motivi per radunarsi, in tal caso, sono molteplici e possono anche esulare dalla celebrazione di sacramenti e liturgie.

Radunarsi come comunità di credenti può essere una grande opportunità per crescere nella speranza.

Radunarsi in chiesa non dovrebbe mai costituire una circostanza abitudinaria o poco riflessa. Soprattutto se il ritrovarsi insieme riguarda l’eucaristia. La “convocazione” liturgica ricorda che vi è un punto di riferimento alto, comune e vitale. La considerazione di una “chiamata” ci predispone all’atteggiamento di chi risponde. Quando un luogo è significativo, non vi giungiamo casualmente, ma in seguito ad una decisione, assumendo responsabilità e scelte.

In chiesa siamo sempre radunati dal “Corpo di Cristo”. L’antichità cristiana consegna a questa espressione una triplice identità: il corpo fisico nato dalla Vergine Maria, il Corpo eucaristico e anche quello ecclesiale. Vi è pertanto sempre un “corpo” al centro della nostra convocazione in una chiesa. Anche se non partecipiamo ad una liturgia. La chiesa, sperando che sia eloquente nella sua struttura architettonica, si presenta come uno spazio aperto al mondo, che tutti accoglie, come una madre premurosa. Sua cura è che il nostro stare insieme sia fraternità, reciprocità, dono. A tutti offre la mensa del Pane e della Parola.

Fraternità, reciprocità, dono, sono ingredienti per alimentare la nostra speranza. Il nostro essere insieme moltiplica in maniera esponenziale tali atteggiamenti che, radicati in noi, custodiscono la fede nella vita, rendono certa la nostra speranza.

Oltre al corpo ecclesiale e a quello eucaristico che lo alimenta, abbiamo bisogno di trovare, in chiesa, anche i corpi fisici. Quelli a cui l’incarnazione del Figlio di Dio ha dato una dignità sublime. Quelli di un’umanità dagli infiniti volti. Quelli segnati dalla malattia e dall’handicap.

Sono i corpi che interpellano la nostra dignità, che evocano la domanda “chi sono io?” “dove sta il mio valore come persona?” Se mancano questi corpi, eloquenti di debolezza, rischiano di mancare anche le domande sull’identità e sul valore. Senza domande, anche le risposte latitano. Una chiesa che non fa risuonare domande e risposte così importanti, tra le sue artistiche volte (o anche tra semplici mura che avrebbero bisogno di essere tinteggiate), è carente.

L’eucaristia convoca corpi e domande, genera risposte e dona vita. Così alimenta efficacemente la nostra speranza. Non scarseggino, dunque, i “poveri” nel corpo ecclesiale. È una celebre esortazione, da un’Omelia di san Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e “ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l’avete fatto neppure a me”. (cf. PG 619-622).

Forse alle persone disabili delle nostre parrocchie non mancano i panni per coprirsi. Più facilmente sono carenti di vita e di relazione. Anche i loro corpi ci convocano, voci di persone, soggetti attivi e responsabili, cui la Chiesa si affida, di cui le chiese hanno bisogno. Di cui anche la nostra speranza non può fare a meno.

Luciano Ruga